Myanmar Journey
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Un rullo meccanico scarica nella hall la nostra attrezzatura. Siamo ancora fermi all’immigration check e un drappello di militari già circonda la montagna di tavole e materiale al seguito del gruppo: “What you do with this sir?”, chiede il capitano da sotto un elmetto che nasconde quasi totalmente gli occhi. Spiegare a cosa serve una tavola da surf non è semplice, specie se ne hai nove e se temi di essere riconosciuto e arrestato come giornalista. Tra le parole tecniche ed i gesti fatti con le mani i miliziani rimangono a lungo in silenzio, poi uno con l’aria saputella sbotta: “Like kayak?!”. Nervosi per la tensione ci mettiamo tutti a ripetere “Yes! Like kayak, like kayak!”. Prima di attraversare la porta che ci separa dall’inizio di questo viaggio un altro brivido: il capo dei militari ci richiama e dice: “And welcome to Rangoon!”.
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Una calma apparente regna tra le strade della ex capitale della Birmania. Il rumore della pioggia sull’asfalto avvolge in un torpore sonoro il viavai di persone e mezzi. I grandi alberghi, costruiti grazie al traffico di oppio e metanfetamine, dominano lo skyline di questa metropoli, atipicamente calma rispetto alle brulicanti città del sudest asiatico.
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A Rangoon si ritrovano a vivere in una vita di lusso ostentato i cinesi (dopo il blocco commerciale imposto dai paesi occidentali, la Cina è diventata il principale partner commerciale della Birmania), i birmani di etnia Wa e i generali della giunta militare. I soldi che usano sono quanto di più sporco si possa trovare: la Triade cinese controlla l’eroina di Kentung e le miniere di rubini dell’area di Mogok, sfruttando le popolazioni locali con turni di 24 ore e stipendi da fame. Dall’imposizione della legge militare nel ’62, le vie attorno al nostro hotel hanno assistito alla sistematica repressione della National League for Democracy da parte dell’illegittimo regime militare.
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La capitale dista 30km in linea d’aria dalla Baia del Bengala ed è collegata al Mare delle Andamane dal limaccioso fiume Rangoon, le cui acque riflettono gli enormi stupa in uno spettacolo di riflessi dorati.
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In tarda mattinata carichiamo il van con tavole, viveri e zaini e partiamo dal nostro albergo nel centro di Rangoon. Appena fuori città, verso Pathein, la campagna è splendida: palmizi e colline verdissime coltivate a riso si estendono a perdita d’occhio, il tempo nei villaggi sembra essersi fermato e le donne che raccolgono il riso accennano un sorriso al nostro passaggio.
Dormiamo a Pathein, il giorno seguente attraversiamo con uno scalcagnato traghetto il fiume più grande della Birmania (l’Irrawaddhi) e con altre tre ore di auto arriviamo alla spiaggia di Chaungtha. Le onde sono ben sotto la misura minima surfabile e presi dallo sconforto organizziamo la mattina seguente per controllare a piedi ed in bici i chilometri di spiaggia. L’esplorazione si rivela inutile, mezzo metro di onde ovunque.
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Da Chaungtha proseguiamo a nord verso Gwa, lungo una strada chiusa ai turisti fino alla cittadina turistica di Nwesung, un villaggio di pescatori che il governo ha voluto trasformare in un luogo di villeggiatura senza che ve ne fosse bisogno. Lungo la spiaggia di questa città surfiamo le nostre prime onde birmane, alte poco più di un metro ma di forma perfetta, e rimaniamo in acqua fino a buio.
Riposiamo una notte e ripartiamo per Gwa, spostandoci ad una media di 10km orari, per arrivare distrutti ad una guest house fatiscente. Il mare è a soli cinquanta metri dal nostro alloggio, ma il ponte che apre la strada verso il nord per raggiungerlo è crollato e il surf ci sembra essere ormai quanto di più lontano da noi e dal nostro intento di viaggio.
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All’alba ripartiamo grazie ad una traballante passerella galleggiante improvvisata dai lavoratori che stanno aggiustando il ponte a pezzi, sulla quale l’autista sfreccia col nostro pulmino. Il paesaggio è ovattato e pare uscito da un acquerello cinese, ma poi la strada corre pian piano ad una decina di chilometri dalla costa senza mai avvicinarsi abbastanza da consentirne la vista.
Nel van regna il silenzio, poi proprio quando tutte le speranze sembrano essersi spente, da dietro un palmeto la vista di un pennacchio di acqua bianca riporta il surf nella nostra realtà. Francesco si lancia fuori dall’auto in corsa (sempre 10 km/h) e corre verso il mare urlando: “O raga c’è un metro!”.
Di fronte ad un agglomerato di dieci palafitte neppure segnato sulle mappe, rompono picchi di onde piccole e perfette. L’acqua è di una trasparenza cristallina, ma prima di buttarci dobbiamo chiedere il permesso al capovillaggio di una piccola comunità buddhista di etnia Rakhaing che vive qui di fronte al mare, di pesca, di colture di cocco e riso, e che pare non abbia mai incontrato persone occidentali. Accettano la nostra richiesta e un po’ impauriti, un po’ stupiti, iniziano a guardare dalla spiaggia le nostre manovre acquatiche divertendosi.
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Ce ne andiamo al tramonto alla volta di Ngapali Beach, dove nei tre chilometri di spiaggia troviamo guest house accoglienti e pulite. Nel beach-break del paese rompono picchi attorno al metro veramente divertenti, che crescono di misura nei giorni seguenti grazie all’arrivo di una nuova swell.
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Surfiamo e scattiamo foto e di colpo l’atmosfera torna quella vacanziera e rilassata, finché ai piedi dell’ennesima collinetta sul mare incontriamo un gruppo di lavoratori, tra cui donne e bambini, che caricano massi pesantissimi sui camion. Un misto di rassegnazione e curiosità è ciò che leggo negli occhi di chi solleva la testa dalle pietre per guardarmi. Per intenderci, queste sono persone ai lavori forzati. Nonostante le rimostranze delle organizzazioni umanitarie, il lavoro coatto è una pratica diffusissima in Birmania utilizzata anche per allontanare dalle città i seguaci di Aung San Suu Kyi, premio nobel per la pace. Ho la tavola sotto braccio, ma ancora una volta il surf sparisce dalla mia mente.
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Mancano pochi giorni alla nostra partenza, la mareggiata a Ngpali è cresciuta e all’ultima session tentiamo di dare un nome a questo spot dalle velocissime onde, lo chiamiamo Children’s. I bambini sono stati il nostro pubblico più attento e a loro dedichiamo i tubi presi in Birmania e questo stesso articolo. Ritorniamo a Rangoon soddisfatti del lavoro svolto, ma con una certa dose di amarezza nel cuore e le ossa fradice di umidità. La Birmania, le cui foreste sono rigogliose grazie alle lunghe piogge monsoniche e le risorse interminabili per la sua posizione geografica naturale, potrebbe essere uno dei paesi asiatici più ricchi nella calma che gli è concessa. Una calma che però è solo apparente.
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