Itinera

Te-ahu-upo’o

Teahupoo, Penisola di Tairapu, Tahiti. Ph. Emiliano Mazzoni

Mentre l’Airbus della Air Thaiti Nui sorvola Matavai Bay riesco ad intravedere nell’oscurità un set frangere sul reef di Point Venus, lo stesso sulle cui onde scivolavano i nativi documentati da Joseph Banks durante la spedizione dell’Endeavour di James Cook. Immagino il botanico Banks, arrivato qui il 13 aprile 1769, seduto davanti alla sua tenda ad annotare questa insolita attività. Al suo fianco Charles Green (il suo astronomo) è alle prese con un quadrante astronomico, intento a controllare la posizione di venere, motivo primario della loro missione. Poi la loro attenzione viene disturbata dalle onde che frangono proprio sotto il promontorio. Un pescatore polinesiano si avvicina alla costa sulla sua Va’a, la tipica canoa ad un solo bilanciere, inseguito da un’enorme muro d’acqua. Man mano che l’onda si avvicina al pass diventa sempre più grande fino a sovrastare e spingere la fragile imbarcazione. Il pescatore allora smette di remare, lo scafo inizia a planare e per acquistare velocità infila il remo nell’acqua virando a sinistra verso la schiuma.

Joseph Banks, The Endeavour Journal of Joseph Banks, 1768 – 1771

L’onda di Point Venus è, oggi come allora, una destra potente che tuba avvicinandosi all’inside. L’indigeno tenta di mantenersi sulla spalla per evitare una pericolosa caduta in mezzo alla schiuma, poi, con un gesto istintivo, infila il remo alla sua destra per riprendere una traiettoria più sicura. La velocità aumenta col procedere della corsa e la canoa finisce nel canale dove l’acqua è più profonda.

È il 28 maggio 1769 e Joseph Banks, botanico nella spedizione di James Cook, rimane sbalordito, non aveva mai visto niente di simile prima d’ora. La cosa più stravolgente, per un europeo come lui, è che il pescatore non si arrende. Finita la corsa si dirige nuovamente verso il mare aperto aspettando un’altra onda e ripetendo tutto da capo. Mentre il botanico inglese sembra nervoso e spaesato, perso in un universo di corallo, tribù ostili e sole cocente, l’indigeno si sta rilassando dopo una giornata di pesca, praticando uno sport che è assieme tecnica marinara e stile di vita.

Il confine fra terra e acqua è quasi impercettibile. Ph. Emiliano Mazzoni

Tahiti, meta di un turismo elitario

Fortunatamente la mia condizione è completamente diversa da quella di James Cook e il suo equipaggio: il mio viaggio non ha nessuna velleità scientifica, ma è un semplice reportage di viaggio come fotografo di onde. Thaiti è oggi meta di un turismo limitato ed elitario alimentato da una crescente esposizione su riviste di viaggi, depliant, e testate di surf.

Dai tempi di Cook sono cambiate molte cose a Thaiti, tranne le onde e la naturalezza con cui i locali ci si relazionano. I reef dell’arcipelago thaitiano sono per lo più formati da spaccature nella barriera corallina, scavate da antichi ruscelli che dalle montagne vulcaniche entrano in mare.

A differenza delle spiagge, dove la sabbia viene trasportata e depositata quasi casualmente ad ogni grossa mareggiata, i reef-pass come Teahupoo impiegano migliaia di anni a formarsi e rimangono praticamente invariati per secoli.

La confidenza estrema dei polinesiani con i loro spot è data anche da questa millenaria interazione con onde sempre identiche a sé stesse. Questo rapporto atavico tra terra, onde e popolazione ha fatto sì che al surf non venisse attribuita alcuna connotazione di status symbol.

Dane Reynolds durante il Tahiti Pro del 2008. Ph. Emiliano Mazzoni

Mentre mi dirigo a sud verso Teahupoo mi fermo per qualche minuto ad osservare le onde di Papara, spot frequentato da intere famiglie, di ogni livello sociale e grado culturale. Passare un’intera giornata in mare, magari portandosi dietro figli, nipoti ed un enorme frigo ricolmo di cibo e birra, fa parte della quotidianità surfistica thaitiana.

Le onde di Papara sembrano fatte apposta per intrattenere surfisti di ogni livello. Nella lunga spiaggia i più giovani si godono la risacca con i bodyboard, diretti discendenti dei Paipo, le corte tavole di legno usate dai bambini fino al secolo scorso. Gli adolescenti invece sfrecciano sulle onde del beach-break con tavolette affilate e piccolissime (la versione moderna degli antichi Alaia), ispirandosi alle manovre dei loro idoli professionisti del surf, che una volta all’anno passano da questo villaggetto di 1400 anime per una tappa del World Surf League Tour.

Stand up paddle

La scenetta più toccante si consuma però sul reef esterno, dove tranquilli signori di oltre cinquant’anni fanno a turno sulle lunghe onde del main-point . La loro routine è semplicemente invidiabile. Pagaiano in piedi verso il picco più esterno, appena l’onda inizia a sospingerli piantano il remo usandolo come timone, e la loro corsa finisce 200 metri più in basso, dopo un paio di larghi cut-back ed un eventuale tubetto. La session si interrompe solo quando la mareggiata cala sotto l’altezza della testa.

La postura tenuta dai polinesiani di mezza età è statuaria. Del resto la recente moda dello stand up paddle, diffusissima qui, ha fatto leva proprio su questa esigenza di ‘stile professionale’: piedi quasi paralleli in mezzo alla lunga tavola, pancia in fuori e peso perfettamente distribuito per planare con il minor attrito. Pare di vedere i regnanti nel XVIII secolo sulle loro pesantissime tavole Olo di legno pieno. Non tutte le onde, però, permettono un approccio così rilassato, ci sono spot che incutono terrore solo a pronunciarne il nome.

‘Ori Tahiti, la danza tradizionale polinesiana. Ph. Emiliano Mazzoni

Un muro di teschi

Teahupo’o, l’onda mitica, dovrebbe essere chiamata Hava’e, il nome ancestrale del pass che si apre nell’oceano per una lunghezza di 300 metri di fronte al villaggio. Per molti anni i surfisti viaggiatori (per lo più australiani, neozelandesi, hawaiani e francesi) chiamarono questa pericolosa onda “Kumbaya”, ma alla fine le venne dato il nome del villaggio.

La pericolosa reputazione di questo reef riflette in qualche modo la storia della penisola di Tairapu narrata nelle leggende orali. In antichità i guerrieri di Teahupo’o erano infatti conosciuti col nome di Matahihae, che significa “occhi che brillano di rabbia” ed erano in eterna lotta con la popolazione di Tautira, a nord della penisola. Dopo una vittoriosa e sanguinosa battaglia, i guerrieri di Teahupo’o decapitarono i nemici e costruirono un muro (ahu) con i loro teschi (upo’o) per marcare il confine del territorio e scoraggiare altre incursioni.

Il villaggio di Te-ahu-upo’o, oggi contratto in Teahupo’o, prese il suo nome proprio da quella storica carneficina. Le relazioni simboliche tra il muro di teschi e l’onda più potente al mondo saltano agli occhi immediatamente.

La violenza di Theaupoo è data dal brusco dislivello nel fondale che passa da 1 a 30 metri in uno spazio di appena 50 metri; le mareggiate oceaniche inoltre, arrivano fin qui senza aver incontrato nessun ostacolo, trasformandosi in un muro lungo solo una settantina di metri, ma dalla potenza distruttiva.

I primi a surfare questo mostro della natura negli anni ’80 sono stati i surfisti locali, che si limitavano ad entrare in mare con condizioni di 3-6ft.

Thaiti Pro, tappa del WSL Tour

Le immagini di queste caverne pericolosamente perfette cominciarono a raggiungere i media di surf solo nell’86 quando i body-boarder Mike Stewart e Ben Severson surfarono e documentarono una mareggiata di 8-10ft. Il Tahiti Pro, la tappa del World Surf League Tour, aprì i battenti solo nel 1997 come gara WQS, creando non pochi patemi agli atleti (e soprattutto alle atlete) abituati a competere in onde mediocri e chiamati di colpo a misurarsi con quest’onda abnorme.

Kelly Slater nel ventre di Teahupoo. Ph. Emiliano Mazzoni

La fama di questo spot crebbe in maniera esponenziale nel 2000, quando Laird Hamilton si fece sparare in un tubo di 18ft guadagnandosi la cover di tutti o quasi i surf magazine mondiali. Record a parte, in un qualsiasi giorno con onde di 10ft, alla fine dell’amplissimo tubo di Teahupo’o si possono trovare solo due cose: gloria o pericolo.

Uno dei più grossi incidenti causati dalla potenza dell’onda e del suo impatto violento sul reef, risale sempre agli anni 2000, quando, qualche giorno prima del Thaiti Pro, un talento taithiano, Briece Taerea, venne sorpreso nell’inside da un onda di 15ft. L’impatto con il fondale gli spezzò collo e spina dorsale in tre punti, facendolo sprofondare in un coma da cui non sarebbe mai uscito. In ospedale i medici riscontrarono gli stessi traumi causati dall’esplosivo di un ordigno antiuomo.

Questa fama di pericolosità e perfezione ha reso in pochi anni il Thaiti Pro una tra le gare più seguite del WSL Tour, attesa da milioni di fan on line. “Il pericolo qui fa parte del gioco”, spiega Kelly Slater, undici volte campione mondiale, ai media che lo intervistavano.

Gli spettatori si rilassano a pochi metri dalla caverna. Ph. Emiliano Mazzoni

Nessun evento al mondo offre ai fotografi simili inquadrature, mentre seduti in barca scattano a soli venti metri dal cuore dell’onda. È in assoluto il tubo più spettacolare che esista, così pericoloso da rendere gli spettatori isterici ad ogni wipe-out!

Nonostante il clamore mediatico, l’atmosfera nel canale dove stanno i fotografi, i film-maker e i giornalisti è rilassata, e anche gli abitanti del villaggio li raggiungono con le barche e le paddle-board per godersi lo spettacolo.

Surfo Vairao, Taapuna, Sapinus e Point Venus, dove l’equipaggio di James Cook rimaneva attonito e incantato a guardare le onde. Il mio viaggio finisce qui, surfando Teahupo’o, e dormendo “alla fine della strada”, il nome che aveva questo villaggio nei tempi antichi. Oltre la costa il nulla, uno spazio sconfinato intriso di storia, antropologia culturale, navigazione e modernità.